Letture

Recensione di Angela Aniello per “Nessuno ti chiama per nome”

“La terra è una proprietà, non un dono. Gli uomini si immaginano che i frutti vengano prodotti con lo stampo, quasi che fosse solo merito delle loro capacità. Il senso di proprietà delle cose va oltre il possesso stesso e ci tengono a farne sfoggio in ogni occasione. Sarà che questi proprietari non ci hanno altro, ma il più delle volte, dal loro argomentare, pare che ci abbiano il dominio persino sullo stupore di chi li ascolta.”

Ci sono libri che, appena letti, ti sfiorano come una carezza e lasciano dentro il sapore della bellezza, perché non raccontano solo una storia, ma all’interno ci mettono la vita con tutti i suoi dettagli, sì da accompagnare il cuore.
Questo, ad esempio, intitolato “Nessuno ti chiama per nome. Un’estate con Sashi” pubblicato con Les Flâneurs Edizioni e scritto dal bravissimo Tommaso Occhiogrosso, scrittore barese con numerose pubblicazioni in attivo e un fertile terreno d’anima.

Il protagonista è un ragazzino molto sensibile e intelligente che riesce a cogliere attraverso il disegno un’accozzaglia di frammenti di chi gli è di fronte sì da tradurli in verità d’essere. Carmine è davvero singolare e chiunque si rapporta a lui, percepisce la sua diversità  meravigliandosi.

Per le strade di Oria la vita si snoda in bozzetti coloriti e, se l’appuntato Carbone, ha quasi timore di metter fuori se stesso, il vero nemico è il maresciallo Biase, quello “dalla faccia di cadavere. Di cera. Se ti avvicini troppo puzza. Lui questo lo sa e non si profuma mai, anzi, se ne va in giro con la divisa pure il giorno del suo compleanno”.

A quattordici anni e mezzo, ad esempio, il verbo fottere non indica solo rubare ma anche essere meglio di qualcun altro; allora il disegno serve a trovare una scusa, un appiglio per concretizzare ciò che si preferirebbe vedere. Parlare attraverso gli occhi può essere un modo per non fare domande  o per godere delle fioriture dell’estate o per illuminare qualcosa, qualcuno che può decidere di spegnersi all’improvviso.

La vita non si appiccica addosso a soggetti che non sappiano farne dono, né può nutrire assenze che si trasformano in motivo costante di ricerca.

Come ci si prepara alla delicatezza di una fragilità da custodire? Come non sentirsi stranieri in mezzo a chi parla e pratica un’altra lingua?

Dopo la notte delle grandi nuvole, tra soffi di vento e foglie che dondolano nel vuoto, il sorriso può far tremare o indicare la via per sorreggere il peso e imparare ad avere un respiro più lungo.

La ricerca di Sashi, la zingarella scomparsa nel nulla, agita in Carmine, contro tutto e tutti, il desiderio di mettersi alla prova guardando con occhi puri ciò che gli altri scartano perché poco interessante.

Preoccuparsi della felicità di chi neppure si conosce che nome ha? Simpatia nel senso di patire insieme? Farsi impronta per non farsi asciugare dal sole? Recapitare un dono che si chiama immensità?

Carmine non resta sulla soglia degli affetti e ci entra con tutto se stesso, non per dovere, ma per necessità di comprendere e decifrare quei codici strani che possono condurre alla felicità di un mondo lontano dai pregiudizi.

È il passaggio naturale delle cose la notte; poi, c’è il funambolismo di un equilibrio da stabilire insieme sbracciandosi quel poco che basta a non fare troppo rumore, oltre l’ammasso di particolari inutili.

Non è accelerando che si giunge alla meta, ma giocando a nascondino con piccoli indizi che abbracciano senza strozzare.

La vita, appunto, grande ballerina d’impazienza e attesa!

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Dettaglio del centro storico di Oria, da cui è tratto il brano “Loretta del 15”

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