Novelle

Ciò che non tradisce

2005_4844

«Cosa manca al vecchio?».

Il fioraio era curioso quanto Hektor. La storia dei cinquemila pezzi l’aveva distratto momentaneamente, ma subito, la sete di Buio, lo colpì alle spalle, come un’ombra spuntata dal nulla.

«È lo spazio che manca. Quando saprò ogni cosa, vedrai che tutto sarà più semplice. Il vecchio inghiotte Buio, a volerlo consumare, ma cammina con una lanterna. Una debole fiaccola che l’avvolge in un alone di mistero. Pare Diogene».

«Chi, quel filosofo famoso e pazzo?!».

«Esatto. Quello che pisciava per strada e defecava dove gli pareva!» – rispose Hektor.

«Questa non la sapevo!» – sbalordì il fioraio.

«… e viveva in una botte. Come i cani, cercava ossa e verità. L’uomo e la fedeltà. Ma aveva poco spazio, a mio parere!».

«E certo, per vivere in una botte!».

«Appunto. È lo spazio che manca!» – disse, e sospese, nella stanza semi buia, altre tre candele fresche.

«Come mai sei colori?».

«Così preferisce: colori diversi».

«Dobbiamo saperne di più, Hektor. Devi scavare, voglio sapere!».

Mollò la presa e abbandonò come cadaveri, strascichi di cera smilzi.

Era più corda che cera. Più scheletro, che sostanza.

«Annusa!».

Sbigottì come appena sveglio. Non gli pareva che qualcosa di nuovo stesse sorgendo, ma il fioraio, non fece una grinza.

«Cosa dovrei annusare, Hektor?».

«Questo!» – e indicò il fascio che stava colando sul piano di lavoro.

Lentamente si avvicinò, strisciando in punta di piedi: erano quegli scatti che temeva, quei passaggi bruschi da zone note alla notte delle volontà. Conosceva quelle occhiate di Hektor, e non le gradiva per niente. Il fatto che, proprio lui, fosse costretto ad una condizione d’imperativo, gli reprimeva le forze, le capacità olfattive, la fonte della sua unicità.

Accostò le narici al blando pigmento cerato, e inspirò ad occhi chiusi.

«Non sento nulla».

«Prova ancora. Muoviti!».

Era come immobilizzato sul quel tavolo, legato ad un cappio come le candele appese ad asciugare.

Provò ancora.

«Niente, Hektor … non sento niente …».

Una mano gli compresse il capo, il naso affondò in quella cera, il viso spiaccicato sul tavolo.

Hektor inchiodò il fioraio al suo tavolo, come un estratto dell’arte, la sua. Chiunque fosse da quelle parti, era cosa sua, un grezzo pezzo di cera da modellare a suo piacimento, secondo le ispirazioni.

«E ora, cosa senti, giardiniere!? Annusa, dammi un tuo parere, esprimi la tua abilità, illuminami!».

«Hektor mi fai male, pezzo di idiota!».

«Non avvicinarti mai più da queste parti, giardiniere! Io faccio luce, o creo il buio se mi pare. Tu assaggi profumi e vesti di essenze i clienti. Io li mostro al mondo intero, tu li copri di fragranze, oscurandone i cattivi odori. Se è merda, è merda anche al buio: il fetore, non tradisce. Né un profumo ne migliorerà il destino!».

Allentò la presa e rigettò il fioraio lontano. Nel cono d’ombra della taverna.

(Metà carne, metà ricordo – David & Matthaus Edizioni)

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