Letture

Un chilometro di devozione e fatica

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Ci sono delle cose che quando le guardo, mi fanno pesare di più.

Una persona incollata alla finestra a fissare il vuoto; il sentiero battuto dalla pioggia che lascia piccole impronte di goccia; un petalo che si stacca dal ramo e cade dondolandosi nel vuoto; l’alone delle luci accese nella bottega del fornaio; una ragazza che pettina, fissandosi allo specchio, lunghe chiome bagnate; dei mobili intarlati, riversi con le gambe all’insù dinanzi al cassonetto della spazzatura; il rumore degli interruttori che conducono la giornata verso il sonno.

Queste e altre cose simili, non so ancora in che modo, riescono a gonfiarmi lo stomaco di un respiro pesante. Come se qualcuno mi ci soffiasse dentro.

La sensazione che provo è piacevole ma allo stesso tempo mi procura sospensione, come fossi indotto a pensare al peggio mentre in realtà non c’è alcun pericolo imminente che incomba sul mio capo. È una dimensione così distante dal reale che a volte temo mi renda così diverso dagli altri da sembrare strano.

Probabilmente io certe cose le noto.

Probabilmente queste cose, fanno di tutto per farsi notare da me.

E poi inizio a riflettere su questo soffio pesante che si ficca nello stomaco e lascia una specie di segno, un’impronta dalla quale non riesco a staccarmi facilmente, solo dopo alcuni giorni.

La prima volta che provai questa sensazione fu qualche anno fa, d’estate.

Con quattro amici di scuola, tra cui Nando, ci allontanammo verso Torre Santa Susanna per fare un’escursione in bicicletta. Io che non ne possedevo, montai su quella di Nando dietro di lui, visto che aveva un sellino bello grande. Mi piaceva l’idea di andare in bicicletta alla scoperta di cose nuove; mi piaceva meno l’idea di non poter guidare una bici tutta mia. Pregai Nando durante il tragitto di farmi guidare per un pezzo di strada, ma lui era troppo spavaldo ed egoista per concedermi un lusso del genere.

«Troppo facile con una bella giornata: se vuoi guidare una bicicletta sul serio, devi provarci quando piove! La prossima volta che è brutto tempo, te la presto»

Quella di Nando mi parve una scusa bella buona pur di non prestarmi una cosa sua, per farmi sentire inferiore in qualche modo. Abbozzai per il resto della strada senza tuttavia darglielo a vedere, perché la soddisfazione di mostrarmi roso dalla mortificato non gliela avrei mai data.

Dopo quasi un’oretta di pedalate dei miei amici, arrivammo a destinazione. Girammo un po’ intorno al paese e ci fermammo ad una fontana per riempire le borracce di acqua fresca. Avevo perso l’entusiasmo giacché di Torre Santa Susanna non me ne fregava una minchia: ero distante dai miei amici, distratto dai miei pensieri, anzi non vedevo l’ora di tornarmene a casa per continuare a starmene coi fatti miei lontano da quei tre antipatici che facevano di tutto per farmi sentire inferiore.

«Ho fame. Ce ne torniamo a casa?» dissi così, senza destare sospetti.

«Cinque minuti e ce ne andiamo» fu la risposta di Nando.

E cinque minuti furono.

Di nuovo alle spalle di Nando. Di nuovo retrocesso in fondo al sellino grande della sua bici.

Verso metà tragitto il cielo si fece scuro e buio: andava verso la notte con dei gran nuvoli.

«Se piove, me la fai portare!» dissi scherzando a Nando.

«Se piove, ti lascio andare da solo» rispose canzonandomi.

Guardai il cielo, e più ci avvicinavamo ad Oria, più l’aria si raffreddava.

Ero certo che avrebbe piovuto, magari quando saremmo giunti a destinazione.

Invece ad un chilometro da Oria, scese giù un acquazzone da non credere.

Ci riparammo sotto un albero. I miei amici scelsero di fermarsi forse perché impauriti dall’abbondante acqua, forse stremati dalla strada.

«Tieni! Torna a casa da solo, se sei capace»

Nando quasi mi scagliò contro la sua bicicletta. Cadde ai miei piedi come un ferro vecchio, senz’anima.

Non me lo feci ripetere due volte.

«Però te la vieni a prendere da casa mia!» e sorridendo la sollevai montandoci su in un baleno.

«Questo è tutto scemo!» disse uno dei tre che non era Nando.

Fu allora che lo stomaco mi si gonfiò per la prima volta, o almeno, la prima volta che ero cosciente di un fatto simile. Il paesaggio era diviso in due parti, due nette frazioni: da una parte i miei amici appollaiati alle radici dell’albero, dall’altra una striscia di asfalto mista a terra colata dai bordi, lunga forse più della mia voglia stessa di pedalare. Da una parte un pieno di amici da svuotare, dall’altra l’interminabile orizzonte che mi aspettava: uno spazio da riempire con le mie pedalate.

E così iniziai.

Così forse provai quella sensazione di leggerezza che mi liberava dalle ingiurie e dalle cattiverie che sentivo sillabare al mio passaggio nei corridoi della scuola quando andavo al cesso; così schiaffeggiavo con il mio sorriso di gioia quanti continuavano a credere che fossi uno di secondo livello, uno che nella vita avrebbe dovuto accontentarsi ché tanto quello era il mio destino, fruttarolo o barista; quanti facevano a gara nello sgambettarmi per rendersi belli davanti alle ragazze o quanti, nonostante la bellezza dei miei disegni, continuavo a sostenere che fossero nient’altro che scarabocchi di merda.

Ero così leggero su quella bicicletta e così felice, nonostante il diluvio si ostinasse a scagliarmi in capo goccioloni pesanti e aguzzi come chiodi, nonostante il fango facesse slittare le ruote, nonostante il grigiore delle nubi mi urlasse contro di smetterla ché tanto prima o poi mi avrebbe scaraventato a terra con una delle sue folate di vento violento.

Ero quel che volevo e che amavo essere: un ragazzo in bicicletta con lo stomaco pieno di voglia.

La sentii quella voglia, la assaggiai con una bella risata di soddisfazione e con la fatica stessa di voler arrivare a destinazione.

Giunsi a casa.

Mi ero fatto acqua e fango. Pedalate di gioia.

Prima che i miei mi potessero vedere, corsi nella mia stanza e mi spogliai per una doccia ristoratrice.

Quando scaraventai la maglietta sudata e pesante di pioggia sul pavimento, mi resi conto di una cosa alla quale non avevo fatto caso: la ruota posteriore della bici, priva di parafango, aveva disegnato alle mie spalle degli schizzi di terra: la prima impressione che ebbi fu di sorpresa.

Era come se il tempo impiegato nella corsa avesse disegnato sulle mie spalle l’emozione stessa della corsa, come se avesse voluto immortalare un attimo.

Una fotografia pesante di soffi finiti nel mio stomaco e che raccontavano una storia che solo il cuore poteva conoscere.

Come una persona incollata alla finestra a fissare il vuoto, come il sentiero battuto dalla pioggia che lascia piccole impronte di goccia, come un petalo che si stacca dal ramo e cade dondolandosi nel vuoto, come l’alone delle luci accese nella bottega del fornaio, come una ragazza che pettina, fissandosi allo specchio, lunghe chiome bagnate, come i mobili intarlati, riversi con le gambe all’insù dinanzi al cassonetto della spazzatura e come il rumore degli interruttori che conducono la giornata verso il sonno.

Ero come tutte queste cose e queste cose erano come me: un chilometro di devozione e fatica, di desiderio e ostinazione.

Fu allora che capii il senso della frase: “Mettici tutto te stesso nelle cose che fai”, perché il me stesso che avevo sprecato in quella corsa, era un me stesso che solo me stesso avrebbe davvero apprezzato e amato.

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