La professoressa Damore era una tipa tosta, tanto che persino il destino ebbe paura di lei. Tanto timore da non donarle nemmeno un figlio. E un apostrofo.
Reggeva la cattedra di Italiano da una quindicina d’anni, quelli giusti perché diventasse una vipera con i suoi alunni. Relegata nel dimenticatoio, aveva fatto promessa sacra che più che una lingua, avrebbe insegnato dei modi di dire. “L’uomo è un animale d’abitudine”, il suo preferito, tanto valeva abituarlo alla disciplina.
I proverbi, erano l’espressione giusta per essere rispettata, dal momento che persino in Provveditorato, era stata esclusa da qualsiasi elenco o graduatoria.
Esubero.
Dopo un esilio nella terra delle supplenze, riuscì a possedere una classe tutta sua.
Il giorno del compito in classe, però quella forza, quella esuberanza, crollò. Anche l’ingresso in aula non fu dei più sostenuti.
Da giorni non riusciva a dormire. Incubi. Fantasmi di voci e torsioni nervose. Isteria.
La professoressa Damore era isterica.
«Traccia: “La paura. Descrivete in maniera esauriente, l’immagine dell’essere o della cosa che incute maggiori impressioni e timori”. Avete due ore a disposizione, da questo momento!».
La classe sogghignò: una traccia insolita.
La professoressa attese con gli occhi assetati di curiosità lo sviluppo del compito. Sapeva che sarebbe stata il bersaglio prediletto, sapeva anche, che il timore avrebbe sepolto le intenzioni nella zona franca della codardia.
Quando la campanella suonò, la cattedra della Damore gorgogliava di tesine piegate a metà.
Sapeva che avrebbe passato la notte a legger righe stracciate in un italiano precario: ciò sarebbe stata la cura che cercava per la sua insonnia isterica. Avvertiva il bisogno di sentirsi giudice e arbitro di pensieri altrui, la necessità come passione irrefrenabile di segnare con la matita rossa, le espressioni di alunni senza istruzione.
Tanta attesa per nulla.
Perché quella notte, si addormentò.
“Il senso della paura, trova radici nelle insicurezze. Si ha paura dei mostri, perché forse sin da piccoli si è vissuti in un ambiente più grande di due palmi; si ha paura del buio perché forse la notte si è vissuti troppo sotto coperta; si ha paura di taluno o tal’altra persona perché forse non si è mai approfondita la conoscenza. Il sapere dunque, smuove le paure. E questa è uno di quegli insegnamenti che mia madre ha tenuto a lasciarmi in eredità. Più che della paura, infatti, ho sempre avuto paura di perderla. E questa è l’unica situazione in cui “paura” è sinonimo di abbondanza: si è così tanto pieni di qualcuno, che si teme di perderla.
Mia madre era una donna di mezz’età. Aveva me e mio fratello, ma ad entrambi non ha mai fatto capire chi fosse il prediletto, perché mia madre era donna che cenava sempre in piedi. Serviva i piatti contemporaneamente, a me e mio fratello, così che non era ci era possibile stabilire un primato. Se ci chiamava, lo faceva in momenti diversi. Ora me, ora mio fratello. Mai insieme. Mia madre era donna che la paura di perderci per strada era così tanta che ci teneva per mano entrambi. Era l’ultima ad andare a letto e la prima a svegliarsi, ma questo è comune a tutte le mamme, eccetto che per un particolare: mia madre ci dava la buona notte e ci svegliava con abiti diversi, sistemata e ben messa su. Ci insegnava a star puliti. Anche in casa. Con dignità. Non che le altre mamme non lo facciano, ma la mia aveva un abito per ogni umore. Mia madre non era avanti con le novità e ogni nuovo aggeggio che veniva fuori, la incuriosiva ma allo stesso tempo le metteva nostalgia: era una donna d’altri tempi e se occorreva, sapeva stare al passo col presente. Ci parlava con gli occhi e rispondeva con sorrisi. Non ho potuto mai chieder nulla a mia madre. Non era possibile. Lei già capiva.
Adesso mia madre è malata.
Alzheimer.
Questo morbo se la sta mangiando giorno per giorno. Non riconosce più nessuno. Tanto meno ricorda i pargoli che ha cresciuto. Io e mio fratello abbiamo smesso le cure.
Adesso non abbiamo più paura: preferiamo ricordarla com’è sempre stata. E questo nuovo rimedio, è l’unica cura che possa combattere la malattia. Lei non la sente, non sa di essere demente.
La malattia è nostra. Di noi suoi figli.
Da quanto il male hai iniziato a giocar con la sua vita, non c’è stato un attimo nel quale abbia temuto di perderla per sempre. Così ho iniziato a parlar di lei al passato.
Mia madre non è più con noi e so che in qualunque luogo sia ora, è felice di me, di mio fratello.
È felice che finalmente abbia deciso di riprender la scuola, anche se di sera: un diploma è sempre un pezzo di carta che vale, diceva.
Ho smesso di aver paura nell’istante in cui ho deciso di ricordarla e di riportarla in vita con le immagini, le parole che spesso tornano alla mente. Ogni santo giorno mi sveglio col pensiero di saperla felice, fiera di me: tutto ciò, mi costa fatica, stanchezza e spesso alla sera non ho neppure voglia di cenare.
Grazie a mia madre non ho più paura. Il timore di non superare l’esame di questa scuola per operai è tanto, ma se penso a lei, so che mi guarderebbe con occhi sciocchi: boicotterebbe le ansie e le riverenze per una prova che alla fine non definisce nulla. Attesta solo qualcosa. E io sono certo di essermi meritato questa partecipazione.
Donne come mia madre, ce ne sono tante ma spesso non le vediamo.
Spesso si ignorano.
Una donna è sempre madre. Anche senza figli. Il seme di donna abbonda di protezione e pazienza, di sopportazione e di umiltà. Una donna senza questo seme, ha solo bisogno d’essere irrorato. Semplicemente innaffiato”.
Firmato Antonio Senigalli.
La professoressa Damore il mattino seguente, si svegliò come priva di scorza.
Non l’isteria l’aveva colpita, ma un vago senso di commiserazione.
Bagnò le lenzuola di lacrime, copiose lacrime.
Finalmente, donna Sandra, Sandra Damore, innaffiò il suo seme di donna. Affrontare la lettura del Senigalli, l’aveva spogliata in qualche modo: aveva scoperto la fonte della sua isteria, della sua insonnia.
Il timore di restar sola.
Non poter accudire nessuno, l’aveva invogliata a prendersi cura di tutti. Ma a modo suo: al contrario.
Quelle righe furono la spinta per lacrime, per il seme che doveva ancora germogliare, sebbene, donna Sandra, fosse già una signora di mezz’età.
Non è mai troppo tardi per imparare, divenne il suo proverbio preferito.